La lealtà della montagna

Contrariamente alle mie abitudini, riprendo a parlare di Luca Frisoni. Il 5 settembre 2016 mi ero già sbilanciato a suo favore con il post https://gognablog.sherpa-gate.com/lequilibrio-del-gigante/, nel quale elogiavo il suo primo romanzo L’equilibrio del gigante.

Frisoni è alla sua seconda opera, La lealtà della montagna, un romanzo che conferma le sue doti (Editrice Il Punto, 2016). Vi si racconta di un alpinista caduto in una vita di disgrazia, complice un incidente in montagna, un amico che lo ha tradito, una sentenza a lui sfavorevole con allegata condanna al pagamento di danni e spese, e con l’aggiunta di una moglie che lo ha abbandonato. Caduto in rovina, il nostro si lascia andare e conduce una vita da barbone a Torino, da due anni in compagnia dell’unico suo amico, Achille, un cane molossoide da lui raccolto mezzo morto e curato con gli ultimi soldi, che è la sua ombra e sembra essere l’unico scopo della sua vita.

Naturalmente non voglio raccontare oltre, ma occorre dire che l’intero romanzo è la rincorsa, non propriamente voluta dal protagonista ma ineluttabile, della sua riabilitazione, come individuo e come cittadino. Un atto dovuto che però non si realizza se non con altri sforzi, se non con altro amore che inaspettatamente gli arriva da sconosciuti, dagli animali e da altri reietti. E naturalmente dalla montagna.

Rispetto a L’equilibrio del gigante qui la trama è più presente e il ritmo narrativo non è mai turbato da salti temporali. Lentamente si svolge il racconto, perché ossessiva è la difficoltà del ritorno a una vita normale.

Il fatto che la trama sia più solida comporta un’osservazione (o ammirazione) ancora più spinta del suo linguaggio poetico. Se prima aggettivi, avverbi e affermazioni confondevano le sintassi e trovavano senso nei colori e negli odori più che nei significati, in questo libro il processo è estremizzato.

Presi a caso, dai mille e mille esempi, aprendo le pagine:
– un suo benefattore gli dona un consistente quantitativo di attrezzatura alpinistica. Il protagonista è commosso e dice: “E’ una spesa grande, non per il valore della merce. E’ il valore che assume l’assenza e la perdita, un confine sabbioso di speranze infrante”;

– sta per iniziare la sua prima giornata di lavoro in un negozio di articoli sportivi. Dal seminterrato deve risalire al negozio: “Ed è ancora luce di lampade in quel piano interrato, le scale sulla destra che risalgo come un salmone controcorrente, ma con meno guittezza dei pesci. Ho la sensazione di una partenza che si perde”.

Mai e poi mai io, per descrivere la sua permanenza in ospedale, avrei parlato del soffitto della camera: “Ho lo sguardo fisso a un soffitto che non vedo da due anni (per la sua vita da barbone, NdR), il soffitto di uno spazio non più inesauribile e colorato, ma oggi sei più bello di ieri, di un giorno passato che non voglio aspettare oltre. L’attesa di innamorarsi di un concetto concreto e studiato…”. E invece Frisoni si sofferma sul soffitto più che sull’infermiera. Il soffitto è l’universo che sta cambiando.

La poesia è tale quanto avverti che le parole ti entrano diritte nell’anima, come fucilate, senza chiedere permesso. Non importa se qualche volta non succede, perché quando succede basta e avanza.

A cadenza abbastanza frequente Frisoni ci rilascia frammenti di visione del mondo: si passa dalla saggezza dei disperati ad affermazioni che ci appaiono vere a qualunque prezzo.

Ne ho scelte, sempre a caso e tra le tante, due:
– la prima è un breve dialogo tra il protagonista e un altro suo benefattore alpinista: “Qualcosa non va?”.
“Sai quando hai quelle sensazioni strane? Ti capita mai?”.
“Sempre, ne ho tutti i giorni”.
“E cosa fai, come le affronti?”.
“Se non riguardano la montagna vado avanti, le affronto man mano che arrivano, se si tratta invece di un’ascensione, generalmente me ne torno a casa
“.

– la seconda è più lunga e articolata del solito: “Tutto ha un prezzo, esiste un Dio da poche lire che svende qualsiasi cosa, dal più nobile dei sentimenti alla cianfrusaglia più inutile, ma non ho una religiosa approvazione della fine. La fine arriva ogni giorno, siamo noi ad accettarla, siamo liberamente liberi di scegliere l’illusione di continuare a lottare o issare una bandiera bianca da ignavi. Ho accettato la resa in una mattina di nebbie che hanno ottenebrato ogni mio senso, fogni mia fibra ha innalzato ed evocato la resa. Poi diventa un’abitudine anche quella, ogni mattina una nuova capitolazione, finché non hai nemmeno più la consapevolezza di ponderare un assalto finale che ti faccia desistere dalle turpi voglie dell’ozio senza responsabilità”.

Quest’ultima giustifica in pieno la dedica che l’autore ha voluto scrivermi a inizio libro: “Ad Alessandro, che i colori dell’anima avvampino nella lettura di uomini e vita che si rincorrono in un gioco di cadute e colpi di coda. A chi come me è caduto e ha saputo rialzarsi sempre!”.

 

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La lealtà della montagna ultima modifica: 2017-02-25T05:51:13+01:00 da GognaBlog
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